Acqua pubblica, referendum e democrazia: il valore del calendario
Articolo di Alessandra Quarta su Corriereweb.net
La data dei referendum contro la privatizzazione del servizio idrico dovrebbe essere – a dire del Ministro Maroni - il 12 giugno, ossia l’ultima domenica utile in quell’arco di tempo indicato dall’art. 34 della legge n. 352 del 1970 per lo svolgimento di queste consultazioni. Se la data fosse confermata, si verificherebbero due fenomeni decisamente criticabili; in primo luogo, il voto referendario sarebbe scisso da quello delle elezioni amministrative, che si terranno in molte città a metà maggio e - se si considera l’eventuale ballottaggio - basta un occhio al calendario per rendersi conto che molti cittadini saranno chiamati alle urne per ben tre volte nel giro di un mese. Il secondo luogo, spingendo la data a ridosso del termine fissato ex lege, si finirebbe per entrare in un periodo in cui molti italiani saranno già in vacanza.
Da queste due considerazioni sembrerebbe emergere una chiara strategia di disincentivo al voto, finalizzata a far sì che non sia raggiunto il quorum, quella quota di votanti necessaria affinché, in caso di vittoria del Sì, possa riconoscersi come avvenuta l’abrogazione delle norme oggetto dei quesiti. Una riflessione su questa strategia fa emergere, a mio avviso, un problema di natura istituzionale e un interrogativo sul senso attuale del concetto di partecipazione.
Il problema di natura istituzionale è molto complesso, perché mette in luce un match dai contorni decisamente paradossali. In quest’ottica, il campo da gioco del referendum sembrerebbe contrapporre due squadre, quella del governo in carica contro tutti i cittadini chiamati al voto; l’oggetto della contesa è il mantenimento di una legge emanata dal primo dei due contendenti. Il gioco tuttavia non è fair, ma anzi il governo ostacola in ogni modo quei cittadini che potrebbero votare a favore dell’abrogazione. Si badi bene, il problema nasce sì dal caso concreto che stiamo affrontando, ma ha contorni generali e, anzi, costituisce una vera e propria tendenza consolidata: infatti, se proviamo a guardare le date ricorrenti in cui il referendum abrogativo è stato indetto nella storia repubblicana, è facile notare che il periodo più quotato – si ricordi, su un arco di tempo pari a due mesi – è sempre coinciso con i quindici giorni di giugno.
E’ corretto ritenere che sul campo del referendum si giochi una partita tra governo in carica e cittadini votanti? Una risposta positiva a questa domanda sarebbe in grado di cogliere soltanto gli aspetti più formali della questione, concentrandosi quindi sul mero oggetto del contendere, ossia l’abrogazione di una legge espressione della forza politica in carica. Sarebbe sufficiente un’attenta lettura della Costituzione per comprende che così non è, che in questo match non esistono squadre contrapposte: la sovranità appartiene al popolo recita la nostra Costituzione, e il trionfo della democrazia rappresentativa non può cancellare dal panorama istituzionale del Paese la democrazia diretta, di cui il referendum è appunto espressione.
La scelta di rinviare all’ultima data disponibile il referendum costituisce uno schiaffo all’idea di democrazia; separare il voto referendario dalle elezioni amministrative è un atto di grave arroganza politica, oltre ad essere palesemente privo di efficienza economica (si conta uno spreco pari a quattrocento milioni di euro).
Oltre che una battaglia in difesa dei beni comuni, il referendum per l’abrogazione delle norme che privatizzano il servizio idrico rappresenta anche lo strumento per liberarsi delle spoglie di consumatore/spettatore sotto cui è sommerso il cittadino: il televoto esercitato comodamente da casa ha sedotto molti, inculcando in maniera subdola l’idea secondo cui o i diritti sono di facile fruizione, oppure “il gioco non vale la candela”.
Inoltre, la dimensione del consumatore ha radicato un’idea di proprietà idiosincratica molto forte, da cui scaturisce una volontà di azione strettamente legata all’idea di possesso diretto, per cui mi sento colpito soltanto se un mio bene sta per subire un attacco diretto e violento. Si è persa la nozione di res publica e si è ignorata per troppo tempo quella di comune, a favore dell’egoismo del proprio orticello, contro la tutela delle generazioni future e sotto un velo di diffuso torpore che proprio la campagna referendaria Acqua Bene Comune ha infranto, consegnando alle istituzioni il sostegno di un milione e quattrocentomila persone.
Per queste ragioni, se venisse confermata la data del 12 giugno, ai cittadini - per essere tali - toccherà dimostrare che l’esercizio della democrazia può anche comportare fatiche e che è giusto che i grandi cambiamenti richiedano impegno individuale. Sarà doveroso dimostrare che la rivoluzione non si può organizzare restando seduti sul proprio sofà e che l’attacco di ciò che è pubblico, altro non è, in fondo, che un attentato a ciò che è anche mio.